La carica di doge fu istituita a Venezia nel 697 e rimase attiva fino alla fine storica della Repubblica nel 1797, con l’eccezione del quinquennio 737-742.
Il primo doge eletto fu Paoluccio Anafesto; alla sua elezione parteciparono 12 famiglie di alto rango, definite anche “apostoliche”: Badoer, Barozzi, Contarini, Dandolo, Falier, Gradenigo, Memmo, Michiel, Morosini, Polani, Sanudo e Tiepolo.
I dogi non ebbero vita facile: fin dai primi anni le famiglie dei tribuni mal digerivano questo nuovo assetto del potere veneziano e ordirono a più riprese congiure di palazzo per rovesciare chi era al governo; nel 737 il terzo doge di Venezia Orso Ipato venne rovesciato e si aprì una fase storica di cinque anni durante i quali venivano eletti dignitari (denominati anche magistri militum) che entravano in carica per un solo anno; alla loro elezione concorrevano soltanto le famiglie notabili degli ex tribuni.
I ceti popolari non gradirono però questo nuovo assetto, e dal 742 venne ripristinata la figura del doge, che, a partire da quel momento, divenne il risultato di un’elezione popolare.
Dal 1172 questa tradizione si interruppe e il doge venne eletto da un comitato di undici membri, poiché entrò in vigore un sistema elettorale a suffragio ristretto.
Nonostante questa svolta elitaria, i poteri del doge erano assai limitati, dato che quest’ultimo non aveva veri e propri poteri decisionali. Veniva considerato il primo servitore della Repubblica.
Ulteriori cambiamenti nel sistema elettorale si verificarono nel 1249, quando Marino Morosini venne nominato doge da un collegio di 41 membri.
Pochi anni più tardi, nel 1268, venne approvato un meccanismo molto articolato per l’elezione del doge e che durò fino agli ultimi anni del XVIII secolo.
La trafila burocratica prevedeva nove scrutini alternati a sorteggio e seguiva il seguente iter:
1) nella chiesa di San Marco veniva scelto il “ballottino”, cioè un bambino tra gli otto e i dieci anni che aveva il compito di estrarre le ballotte, ossia le palle utilizzate per le votazioni. Solo in trenta di esse veniva inserito un fogliettino con la scritta “elector”. I trenta sorteggiati non dovevano avere tra loro legami di parentela.
2) A quel punto fra i 30 prescelti ne venivano sorteggiati 9.
3) I 9 sorteggiati nominavano 40 membri che, con un nuovo sorteggio, venivano ridotti a 12.
4) I 12 sorteggiati ne eleggevano 25, che venivano nuovamente ridotti a 9.
5) I 9 sorteggiati dovevano scegliere 45 elettori, che, dopo un’ulteriore estrazione, venivano ridotti a 11.
6) Gli 11 sorteggiati dovevano eleggere i 41 elettori del doge, ciascuno dei quali doveva vedersi attribuire almeno 9 voti.
Questo nuovo organismo, noto anche come Eccellentissimo Quarantun, si riuniva a porte chiuse a Palazzo Ducale e provvedeva, previa maggioranza di 25 voti, all’elezione del doge, che doveva essere in ultima battuta approvata dall’assemblea popolare.
La motivazione principale per cui venne adottata questa procedura burocraticamente così complessa era legata all’intento di evitare clientelismi ed episodi di corruzione: si voleva che colui che ricoprisse la carica dogale agisse in maniera limpida, salvaguardando gli interessi generali della Serenissima invece di quelli legati a poche famiglie patrizie.
Sfortunatamente questo complesso artificio non bastò a fermare la corruzione: nel corso del tempo vennero escogitati trucchi per violare il sistema.
Le Annotazioni degli Inquisitori riportano che, in concomitanza delle elezioni dei dogi Marco Foscarini e Paolo Renier, ci fu una compravendita di voti che coinvolse 200 patrizi. Questa operazione illecita non poteva avvenire dentro la sala del Maggior Consiglio, ma aveva luogo nel cortile di Palazzo Ducale, chiamato in veneziano anche “brolo” o “broglio”: da ciò deriva la parola broglio ancora tristemente attuale.